Itinerario
Acropoli di Populonia

Introduzione (Meeting Point)
Benvenuti nel Parco Archeologico di Baratti e Populonia, dove potrete ammirare i resti archeologici di un’antica città e alcuni dei paesaggi più belli della Toscana. Populonia è probabilmente una delle città etrusche più famose. La sua storia millenaria, le sue peculiarità geografiche ed economiche legate alla lavorazione del ferro resero celebre la città come un vero e proprio centro siderurgico del mondo antico. Le tracce dell’origine della città si perdono nelle nebbie dei tempi. Le fonti antiche parlano di alcuni coloni da Volterra e dall’isola di Corsica che decisero di costruire una nuova città su questo colle: una versione davvero troppo semplicistica da poter essere creduta. Piuttosto gli scavi archeologici sottolineano, tra il X ed il IX secolo a.C, uno spostamento dei villaggi abitati verso i colli e i declini dei rilievi che formano il promontorio definito dal Golfo di Baratti. Molto poco sappiamo sulla natura di questi villaggi pre-etruschi e sui rapporti che intrattenevano tra di loro. Recentissimi scavi hanno evidenziato, a pochi metri da dove vi trovate, su un’altura chiamata Poggio del Telegrafo, alcune buche di diverse dimensioni dove alloggiavano originariamente i pali di capanne costruite da questi originari abitanti. Le buche di palo, davvero poco attraenti da un punto di vista visivo, sono cruciali per capire la forma e la composizione del villaggio: alcune capanne erano di dimensioni notevoli e il ritrovamento di ceramica di importazione ha lasciato pensare ad una precoce società elitaria che gestiva l’economia e la politica dell’area. Sicuramente fondamentale è stata la ricostruzione, almeno in pianta, di una capanna rettangolare più grande dotata perfino di un portico che, dopo essere stata utilizzata dalla comunità come un luogo di riunione pubblica, fu demolita tra l’VIII e il VII secolo a.C. per costruirne una simile, proprio sulla distruzione della precedente. La demolizione della capanna fu accompagnata dall’accurata deposizione di circa 100 tazze impilate l’una sull’altra in uno dei fori per i pali strutturali. L’interpretazione di questo gesto rituale rimane discusso: si potrebbe però pensare ad un passaggio di leadership, un cambio al vertice della città. Un re molto amato morì e, dopo aver celebrato l’evento con un brindisi sacro, si demolì la capanna e si sotterrarono le coppe o magari, il re si era rivelato un tiranno e se ne celebrò la morte salutando l'ascesa di un nuovo sovrano. Questo rito ci dice che è su Poggio del Telegrafo che nacque la città etrusca di Populonia. Qualche secolo più tardi ritroviamo l’altura completamente strutturata: è ora la zona più alta e importante della città etrusca di Puplùna dove negozi, templi e magari edifici pubblici si affacciano su piazze trafficate e piene di gente. Populonia non è più un piccolo villaggio senza nome difeso da una palizzata: migliaia di operai lavorano nei forni della città bassa il ferro dell’isola d’Elba e il rame delle miniere di Campiglia. Pensate, ancora oggi, dopo più di due millenni potete facilmente ritrovare sulla spiaggia del Golfo le tracce dell’antica lavorazione: brillante polvere di ematite e scure scorie ferrose. Un’antica città industriale: inquinata, senza vegetazione e piena di discariche industriali. L’Acropoli, la città alta, rappresentava un piccolo paradiso di cui, purtroppo, non rimane più nulla dell’epoca etrusca. La città passerà sotto l’egemonia dei romani intorno al III secolo a.C. e le costruzioni della grande ristrutturazione urbanistica del II secolo a.C. oblitereranno per sempre le vestigia etrusche. Fermiamoci un attimo. Romani ed Etruschi si sono scontrati sul campo di battaglia in molte occasioni. Ci immaginiamo grandi ed epiche battaglie, assedi e distruzioni per il possesso della ricca Etruria. Eppure le indagini archeologiche a Populonia non hanno rivelato tracce evidenti di distruzioni. La città quindi non ebbe la forza di opporsi alla potenza di Roma e le aristocrazie locali, allineate con il nuovo potere, conservarono, così, il loro ruolo nella gestione della città. La ricchezza dei corredi sepolcrali di questo periodo e la continuativa attività siderurgica dimostrano un rinnovato impulso economico, almeno in un primo momento, indiretto, sotto il dominio romano. Tutto quello che vedrete oggi sull’Acropoli è in effetti frutto di interventi edilizi di epoca romana di III-II secolo a.C. e stanno lentamente tornando alla luce: gli scavi sono appena iniziati e della complessità urbanistica della città alta resta ancora molto da scoprire. Avete quindi l’occasione di visitare un sito archeologico aperto che, nei prossimi anni, rivelerà molte sorprese. Benvenuti nel Parco Archeologico di Baratti e Populonia, dove potrete ammirare i resti archeologici di un’antica città e alcuni dei paesaggi più belli della Toscana. Populonia è probabilmente una delle città etrusche più famose. La sua storia millenaria, le sue peculiarità geografiche ed economiche legate alla lavorazione del ferro resero celebre la città come un vero e proprio centro siderurgico del mondo antico. Le tracce dell’origine della città si perdono nelle nebbie dei tempi. Le fonti antiche parlano di alcuni coloni da Volterra e dall’isola di Corsica che decisero di costruire una nuova città su questo colle: una versione davvero troppo semplicistica da poter essere creduta. Piuttosto gli scavi archeologici sottolineano, tra il X ed il IX secolo a.C, uno spostamento dei villaggi abitati verso i colli e i declini dei rilievi che formano il promontorio definito dal Golfo di Baratti. Molto poco sappiamo sulla natura di questi villaggi pre-etruschi e sui rapporti che intrattenevano tra di loro. Recentissimi scavi hanno evidenziato, a pochi metri da dove vi trovate, su un’altura chiamata Poggio del Telegrafo, alcune buche di diverse dimensioni dove alloggiavano originariamente i pali di capanne costruite da questi originari abitanti. Le buche di palo, davvero poco attraenti da un punto di vista visivo, sono cruciali per capire la forma e la composizione del villaggio: alcune capanne erano di dimensioni notevoli e il ritrovamento di ceramica di importazione ha lasciato pensare ad una precoce società elitaria che gestiva l’economia e la politica dell’area. Sicuramente fondamentale è stata la ricostruzione, almeno in pianta, di una capanna rettangolare più grande dotata perfino di un portico che, dopo essere stata utilizzata dalla comunità come un luogo di riunione pubblica, fu demolita tra l’VIII e il VII secolo a.C. per costruirne una simile, proprio sulla distruzione della precedente. La demolizione della capanna fu accompagnata dall’accurata deposizione di circa 100 tazze impilate l’una sull’altra in uno dei fori per i pali strutturali. L’interpretazione di questo gesto rituale rimane discusso: si potrebbe però pensare ad un passaggio di leadership, un cambio al vertice della città. Un re molto amato morì e, dopo aver celebrato l’evento con un brindisi sacro, si demolì la capanna e si sotterrarono le coppe o magari, il re si era rivelato un tiranno e se ne celebrò la morte salutando l'ascesa di un nuovo sovrano. Questo rito ci dice che è su Poggio del Telegrafo che nacque la città etrusca di Populonia. Qualche secolo più tardi ritroviamo l’altura completamente strutturata: è ora la zona più alta e importante della città etrusca di Puplùna dove negozi, templi e magari edifici pubblici si affacciano su piazze trafficate e piene di gente. Populonia non è più un piccolo villaggio senza nome difeso da una palizzata: migliaia di operai lavorano nei forni della città bassa il ferro dell’isola d’Elba e il rame delle miniere di Campiglia. Pensate, ancora oggi, dopo più di due millenni potete facilmente ritrovare sulla spiaggia del Golfo le tracce dell’antica lavorazione: brillante polvere di ematite e scure scorie ferrose. Un’antica città industriale: inquinata, senza vegetazione e piena di discariche industriali. L’Acropoli, la città alta, rappresentava un piccolo paradiso di cui, purtroppo, non rimane più nulla dell’epoca etrusca. La città passerà sotto l’egemonia dei romani intorno al III secolo a.C. e le costruzioni della grande ristrutturazione urbanistica del II secolo a.C. oblitereranno per sempre le vestigia etrusche. Fermiamoci un attimo. Romani ed Etruschi si sono scontrati sul campo di battaglia in molte occasioni. Ci immaginiamo grandi ed epiche battaglie, assedi e distruzioni per il possesso della ricca Etruria. Eppure le indagini archeologiche a Populonia non hanno rivelato tracce evidenti di distruzioni. La città quindi non ebbe la forza di opporsi alla potenza di Roma e le aristocrazie locali, allineate con il nuovo potere, conservarono, così, il loro ruolo nella gestione della città. La ricchezza dei corredi sepolcrali di questo periodo e la continuativa attività siderurgica dimostrano un rinnovato impulso economico, almeno in un primo momento, indiretto, sotto il dominio romano. Tutto quello che vedrete oggi sull’Acropoli è in effetti frutto di interventi edilizi di epoca romana di III-II secolo a.C. e stanno lentamente tornando alla luce: gli scavi sono appena iniziati e della complessità urbanistica della città alta resta ancora molto da scoprire. Avete quindi l’occasione di visitare un sito archeologico aperto che, nei prossimi anni, rivelerà molte sorprese.

L’Area Sacra (tra tempio A e tempio B)
Siamo appena entrati in quella che era la zona sacra dell’Acropoli romana di Populonia. Per adesso tre grandiosi templi sono stati portati alla luce. Poco rimane dell’antico splendore: si scorgono solo i basamenti perché, nel Medioevo, i blocchi con cui erano costruiti gli alzati furono smontati uno dopo l'altro, vennero rimossi per costruire nuovi edifici (ad esempio il Castello di Populonia Alta). Qua, nell’area antistante ai templi, avvenivano le grandi funzioni religiose. I cittadini assistevano ai sacrifici agli dèi sugli altari prospicienti ai templi: nessuno, neppure il più ricco tra gli abitanti, poteva entrare nella Casa del Dio. Solo il sacerdote, intermediario tra il mondo sacro e quello profano, poteva accedervi. Il tempio A è stato costruito in arenaria macigno e presentava una forma raccolta: solo 4 colonne definivano un piccolo porticato e separavano la cella dallo spazio esterno. Purtroppo l’identificazione della divinità a cui era dedicato rimane sconosciuta. Tuttavia è chiaro, dalla cavità visibile nelle fondamenta, che era presente un luogo di culto precedente la ristrutturazione di epoca romana. Dal ritrovamento fortunoso di alcune teste scolpite riusciamo a contestualizzare il tempio dopo la metà del II secolo a.C. Il tempio B era il più grande di tutti i templi per adesso scavati. Magnifico e imponente doveva impressionare per la sua mole. Purtroppo parte del tempio è crollato, ma dalle fondamenta e dai gradini superstiti si riesce ancora a scorgere l’antica grandezza realizzata tra il III ed il II secolo a.C. Tre grandi celle hanno fatto immediatamente ipotizzare ad una triade, confermata dal ritrovamento di frammenti di decorazione scultorea: un personaggio tra gli artigli di un rapace. E’ questo il primo indizio che porta all’identificazione del tempio B con il Capitòlium di Populonia, il tempio più importante dedicato a Giove, Giunone e Minerva. Il frammento fa riferimento ad uno dei miti più famosi del mondo greco-romano: Giove in cerca di una delle sue solite avventure extra-coniugali si innamora follemente del giovane Ganimede che rapisce trasformandosi in aquila e portandolo con sé sull'Olimpo per farne il coppiere degli dèi. Lo stesso Plinio il Vecchio, autore romano che morirà nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., scrive che a Populonia esisteva un’antichissima statua di Giove ricavata da un legno di vite di Cipro, confermando così l’esistenza in città del culto di Giove.

Un piccolo tempio – Adriano a Populonia
Durante il regno dell’imperatore Adriano, in segno di evergetismo verso l’antica città alleata di Roma e in ossequio agli dèi, furono restaurati i templi e realizzato il piccolo tempietto che vedete davanti a voi. Il tempietto è stato costruito sopra un edificio più antico, datato intorno al 50 a.C., ed era formato da due ambienti, preceduti da una scalinata di tre gradini. Come sappiamo tutto questo? Durante lo scavo dell’area che è davanti a voi, abbiamo trovato i pavimenti degli ambienti, composti da piccoli frammenti di marmo bianco e malta. Invece, i muri perimetrali sono stati in gran parte smontati nel Medioevo, per recuperare materiale da costruzione. Sul davanti, rimaneva solo una fila di pietre, su cui doveva appoggiare il primo dei tre gradini della scala di ingresso. Il pavimento del primo ambiente è stato scavato e al di sotto è stato trovato un accumulo di macerie provenienti dai templi, che evidentemente erano già in rovina quando il tempietto è stato costruito. Fra queste macerie si trovavano ceramiche in uso tra l’80 e il 120 d.C.: una datazione che si concilia bene con un frammento di iscrizione in marmo, ritrovato nell’area dei templi. Il frammento è piccolo, ma sufficiente a leggere il nome dell’imperatore Adriano e una parte di una frase rituale, utilizzata per celebrare i restauri di antichi edifici. Probabilmente, l’iscrizione completa era collocata sulla fronte del tempietto, affacciato verso la grande piazza e dunque ben leggibile da chiunque percorresse a quel tempo l’area sacra dell’acropoli. Sul frammento è ancora possibile leggere: L’IMPERATORE CESARE, FIGLIO DEL DIVINO TRAIANO VINCITORE DEI PARTI, NIPOTE DEL DIVINO NERVA, TRAIANO ADRIANO AUGUSTO, PONTEFICE MASSIMO, 9 VOLTE TRIBUNO DELLA PLEBE, 3 VOLTE CONSOLE, HA RIPRISTINATO (QUESTO EDIFICIO) ROVINATO DAL TEMPO

Il tempio C
Da un punto di vista conservativo e di leggibilità, il terzo dei tre templi risultava essere il più complicato: solo pochissimi blocchi rimanevano in situ. Così il tempio è stato scelto per un innovativo esperimento di ricostruzione non invasivo che ha riguardato il podio originario. Blocchi di polistirolo industriale rivestiti da una resina sintetica, riproducono fedelmente misure, colori e forme dell’antico tempio, foderato in blocchi di calcarenìte e con la scala di accesso in riolìte, per restituirci l’antica sensazione che doveva provare un uomo davanti al tempio del suo dio. Costruito tra la fine del III secolo a.C. e l’inizio del II a.C., poco prima del tempio B, questo tempio era un tempio tuscanico su podio a tre celle , con due file di due colonne centrali nel prònao, chiuso ai lati dalle antae (leggere ante) prolungate fino alla fronte, e accessibile da una scalinata. Il podio era alto 1,83 m. La scalinata aveva 5 gradini più ampi (larghi 7,96 m) e poi successivi 3 gradini (larghi 4,40 m), in tutto 9 alzate per raggiungere la quota interna del tempio. Il basamento era largo 16,08 m ovvero 54 piedi romani e lungo 21,35 m ovvero 72 piedi, 77 se si considera la scala, per una lunghezza totale di 22,87 m. I muri interni misuravano 7,5 piedi ovvero tra 2,5 e 3,00 m Internamente era suddiviso in tre ambienti, uno più grande centrale e due più piccoli laterali, non perfettamente uguali. La prima ipotesi vede il tempio C dedicato a tre divinità, una maggiore ospitata nella cella centrale, le altre due minori nelle celle laterali. Una triade identificata con Cerere, Libero e Libera, legata dunque al ciclo delle stagioni, così come ricordano le spighe di grano, i melograni, i tralci di vite, le mele cotogne rappresentate sui frammenti superstiti della decorazione del tempio. In realtà gli scavi non hanno chiarito se le celle laterali fossero davvero tali, o se si trattasse di vani in comunicazione con la cella centrale, per il deposito di ex voto o di oggetti sacri. Secondo questa seconda ipotesi, il tempio sarebbe dedicato a una sola divinità, forse Heracle (leggere Eracle). Uno specchio proveniente da Orvieto raffigura Eracle associato a Fùfluns, divinità etrusca agreste; forse gli elementi vegetali rappresentati non sono una semplice decorazione, ma richiamano a questa associazione, dove Eracle ha funzione di protezione dei cicli vegetativi. Così si spiegherebbe anche la presenza sulla decorazione di un genio alato, qui come personificazione della forza della natura associata sia al mondo terreno che a quello ctonio, così come Fùfluns, cui si lega il grappolo di uva. Nell'area del tempio C inoltre sono stati ritrovati un ex voto anatomico, una mano, e frammenti di pòcola deòrum, riferibili a Heracle Eracle, già attestato a Populonia anche in epoca precedente e che qui potrebbe avere trovato un nuovo edificio di culto.

La cisterna & il retro tempio C
Sul retro del ricostruito tempio C si possono osservare i blocchi originali di calcarenìte che costituivano il paramento esterno della struttura e foderavano il nucleo di arenaria macigno. Oltre al tempio, si scorgono altri edifici, probabilmente legati per lo più alle attività cultuali. Sulla sinistra, invece, alcuni scalini introducono alla grande cisterna che, ancora parzialmente da scavare, era un enorme collettore di acqua piovana (fino a 500 m3), qui convogliata da un fitto ed esteso sistema di raccolta e canalizzazione dell'acqua piovana che si sviluppava al di sotto di ogni edificio dell'acropoli. Populonia era infatti priva di fonti d'acqua naturali e ogni singola goccia di pioggia era meticolosamente raccolta per garantirsi l'approvvigionamento idrico della città. In un mondo dove ogni aspetto della vita, compreso l'atto del costruire, era intriso di sacro, questa imponente trasformazione urbanistica fu sicuramente accompagnata da riti espiatori e celebrazioni propiziatorie. Ne abbiamo un'eco nella deposizione votiva di un piatto con resti di maialini, relativi a un sacrificio che comprendeva dunque il consumo collettivo e rituale di carne nel complesso della grande cisterna pubblica cittadina. L'acqua, elemento sacro, non poteva essere imprigionata dalle opere dell'uomo, né il suo corso naturale deviato per le esigenze dei mortali, senza che il gesto fosse espiato, così come l'atto stesso di profanare la terra, quando l'uomo entrava in contatto con le divinità ctonie. La cisterna ha curiosamente conosciuto una seconda vita più ‘recente’ dopo l’abbandono progressivo dell’Acropoli in età romana (I d.C.). Il grande ambiente sotterraneo, coperto da una doppia volta a botte, fu dotato di una scala monumentale d'accesso, in lastre e blocchi di calcarenite, sui cui lati si aprivano delle nicchie. La cisterna aveva perso la propria funzione originaria e, per le sue caratteristiche di ambiente ipogeo, fu forse utilizzata come un luogo di culto misterico di tarda epoca imperiale romana. L'ipotesi più affascinante è legata al culto di Mitra. Questa zona dell'acropoli ebbe comunque una lunga vita: a partire dal IX secolo d.C., nell'area retrostante il tempio C, fu costruito un piccolo abitato. Sono state finora individuate due case in legno con rispettivi focolari, alcune tombe a cassone e addirittura una piccola strada che farebbero pensare ad una sorta di insediamento in cima alla abbandonata acropoli romana per sfuggire alle frequenti incursioni di pirati e briganti saraceni e greci lungo la costa.

La strada basolata
Ecco davanti a noi una magnifica strada basolata romana, inserita in un sistema di assi ortogonali che definivano l'urbanistica della città, conservata in ottime condizioni. Essa nasconde molti più segreti di quanto si possa pensare. I romani costruivano solitamente strade per favorire lo spostamento dei potenti eserciti, per facilitare scambi e commerci e per rendere più organizzata e vivibile una città. La nostra strada, tuttavia, è davvero troppo breve per poter aver aiutato l’esercito ed è troppo in pendenza (circa 11%) per poter essere stata utilizzata dai carri. A conferma, infatti, non sono presenti i profondi solchi tipici del continuo passaggio di ruote. Perché dunque venne costruita questa breve strada? Probabilmente essa era una strada da percorrere in occasioni solenni, costruita con l’esplicito intento di collegare l'area sacra dei templi con l'edificio ad arcate che si scorge alla fine del suo percorso, probabilmente un santuario marittimo su terrazze, dedicato a Venere. Era dunque una strada sacra. La strada era fiancheggiata da un marciapiede, in grandi blocchi di calcarenite, e ai lati erano degli edifici. In alcuni punti è possibile intravedere gli assi stradali secondari, sempre in basoli, perpendicolari alla strada principale, che delineavano vie e quartieri in cui era suddivisa l'acropoli. Al di sotto dei basoli, un grande collettore centrale e un complesso sistema di canalizzazioni e piccole cisterne, convogliavano l'acqua a valle, verso la grande cisterna cittadina.

La Domus
Siamo di fronte alla più lussuosa casa trovata a Populonia, una delle maggiori di tutta l’Etruria! La casa (domus) si affacciava direttamente sulla principale strada della città che scende verso i templi. Il proprietario doveva essere un personaggio molto in vista, che viveva qui con la sua famiglia, compresi gli schiavi domestici. La casa era grande e articolata perché doveva assolvere a tante funzioni diverse: si trovavano ad esempio gli alloggi per la famiglia, i quartieri degli schiavi e gli ambienti di servizio come la cucina e la dispensa. Gli ambienti più sfarzosi occupavano il centro dell’abitazione e dovevano dimostrare agli occhi dei visitatori l’alto rango del proprietario. L’ambiente principale era l’atrio e da qui si aveva accesso a tutte le altre stanze. Nello stesso atrio si affollavano tutte le persone (i clienti) che venivano a rendere visita al padrone ogni mattina per chiedergli favori o sbrigare affari con lui. In altre stanze e nel giardino posteriore il proprietario invitava i suoi amici e gli ospiti di maggiore riguardo. La casa è stata costruita intorno al 100 a.C. al posto di una precedente, ancora non datata. Le piccole terme visibili sulla destra dell’edificio sono state aggiunte in un secondo momento, forse quando sono stati realizzati anche tutti i pavimenti che vediamo oggi. La casa è stata abbandonata dopo un incendio, circa 150 anni dopo la sua costruzione. Della casa si conserva solo una metà. Dalla strada si entrava nel vestibolo (A) e da qui nel corridoio (B) che immetteva nell’atrio (C). Proseguendo lungo lo stesso allineamento si trovava il tablìno (D), un grande salotto aperto verso l’atrio. Altri due annessi laterali dell’atrio erano chiamati ali: ne vediamo soltanto uno (E). Verso destra si trovavano le terme (F) e alcuni ambienti di servizio (G). Dalla porta in fondo al tablìno si accedeva a un giardino (H), su cui si apriva anche un vasto ambiente (I), forse una sala per i banchetti (triclìnio) dove il proprietario cenava insieme con i suoi ospiti. Al centro dell’atrio vediamo la bassa vasca dell’implùvio (L) che raccoglieva la pioggia che cadeva dall’apertura rettangolare presente nel tetto (complùvio); dall’implùvio l’acqua arrivava dentro una cisterna sotterranea che era collocata sotto al giardino. Alcuni gradini che si trovano negli ambienti di servizio ci fanno ipotizzare che la casa avesse anche un secondo piano (M).

Dentro la Domus
Tra il 100 e l’80 a. C. la casa si è arricchita di due ambienti termali, per le pratiche igieniche delle persone di famiglia e forse anche dei loro ospiti. L’introduzione di questi servizi privati è segno di una notevole ricchezza dei proprietari, perché a quell’epoca le sale destinate al bagno caldo erano ancora rare all’interno delle abitazioni. L’ingresso alle terme avveniva attraverso un piccolo vano che serviva ad evitare l’ingresso dell’aria fredda dall’esterno. L’ambiente era costruito con muri in argilla (ora scomparsi) ed era chiuso fra due porte, una di ingresso dall’atrio, e una seconda di passaggio alla prima sala termale. Questa è molto semplice, ha un pavimento in cocciopesto e non era riscaldata, se non forse nella stagione fredda da un braciere. Qui ci si poteva spogliare, prima di entrare nella sala calda (caldàrio), appoggiando i vestiti su una panca o su scaffali. Nella parte destra dell’ambiente una parete divisoria creava un angolo riservato, dove c’era una vasca per il bagno di pulizia oppure una latrina: non lo sappiamo con precisione, poiché l’elemento che era incassato nel pavimento è stato asportato durante una delle tante operazioni di spoglio. Due gradini consentivano di entrare nel caldàrio, attraverso una bella soglia in mosaico a scacchiera. Questo ambiente è sopraelevato rispetto agli altri perché è stato necessario creare lo spazio per l’intercapedine (ipocausto), che tuttora è conservata sotto il pavimento. Nell’intercapedine circolava l’aria calda prodotta dal forno (prefùrnio), che riscaldava in questo modo l’ambiente, prima di trovare sfogo in due piccoli camini circolari, collocati negli angoli della parete che costeggia la strada. Il prefùrnio era collocato nell’angolo dell’ambiente adiacente. Il fuoco riscaldava anche caldaie colme di acqua che, attraverso tubature, riempiva la vasca per il bagno caldo, posta proprio davanti all’imbocco del prefùrnio. Della vasca non rimane che il gradino di accesso, splendidamente decorato. A sinistra del gradino, un’esèdra semicircolare ospitava un bacino in terracotta o in marmo, appoggiato su una base. Il bacino era riempito di acqua fredda e serviva, al bisogno, per rinfrescarsi e mitigare l’effetto della temperatura elevata. L’arredo del caldàrio era completato da panche disposte lungo le pareti, dove sostare per godere del calore e sudare, o per ricevere massaggi con oli profumati. C’erano schiavi adibiti a questo, come al funzionamento dell’impianto di riscaldamento e alla pulizia dei locali dopo l’uso. La gradevolezza dell’ambiente era esaltata dalle decorazioni, semplici ma di grande eleganza. Sul mosaico in calcare bianco, spiccano come piccoli tappeti il meandro centrale, il motivo semicircolare che borda l’esedra, la fascia con la rappresentazione di mura di città, che precede il gradino della vasca, mentre il gradino stesso è ornato da un fitto motivo a scacchiera. Il rivestimento delle pareti è realizzato in cocciopesto dipinto di rosso, impreziosito da tessere bianche a formare motivi geometrici semplici o più complessi come nell’alzata dei gradini della vasca. Senza dubbio, la suite termale doveva essere l’orgoglio dei suoi proprietari!

Terrazza superiore, logge e belvedere
La terrazza superiore delle Logge aveva un affaccio straordinario sulla strada e sull’area dei templi. Il belvedere aveva una decorazione davvero eccezionale, eseguita con grande abilità tecnica e artistica. Sulle pareti furono dipinti grandi riquadri dai colori vivaci, a imitazione di diversi tipi di marmo, intervallati da semi colonne in stucco, a imitazione di quelle in marmo. Il soffitto era a cassettoni, nei colori rosso e bianco. Il pavimento era in mosaico bianco, bordato da una fascia rossa e impreziosito da un motivo centrale a cubi prospettici, in lastrine di marmo. In seguito all’abbandono dell’edificio, il Belvedere crollò nell’ambiente sottostante, adibito a magazzino, dove gli archeologi, con un paziente lavoro di scavo, lo hanno recuperato in centinaia di frammenti. Dopo lo studio e il restauro, una porzione del pavimento e il motivo centrale sono oggi esposti al Museo archeologico di Piombino.

Il Ninfeo
Sulla terrazza superiore delle Logge, sono conservati i resti di una fontana monumentale, dedicata alle Ninfe. Due nicchie affiancate, con le pareti in origine decorate da conchiglie, ricreavano un ambiente marino, evocato da uno dei due mosaici rinvenuto casualmente da un contadino. Il mosaico rappresentava un mare scuro popolato da pesci e molluschi, con un effetto illusionistico creato dall’acqua che scorreva sulla superficie, per essere poi incanalata nei due ambienti ipogei sottostanti le nicchie. L’ipotesi è che questa fontana monumentale ospitasse un sacello dedicato a Venere, dea dell’amore e della bellezza. Una testimonianza è la scena di naufragio rappresentata sul mosaico: una barca con tre marinai a bordo sta per essere travolta dalle onde. Uno dei tre marinai alza il braccio verso il cielo in direzione di quello che a prima vista appare come un mollusco. Se osserviamo la scena capovolta, dal punto di vista della rappresentazione, il mollusco assume le sembianze di una colomba, uccello sacro a Venere. L’ipotesi è che la raffigurazione sia un ex voto alla dea, protettrice dei naviganti, per uno scampato naufragio.

Il complesso delle terme
Sulla terrazza delle Logge, gli archeologi stanno riportando in luce uno dei più antichi edifici termali dell’Etruria Settentrionale, conservato in modo davvero straordinario e per un’altezza non comune. L’ipotesi è che siano terme pubbliche, legate alle attività del santuario delle Logge, dedicato a Venere. All’edificio si accedeva da uno stretto corridoio, provvisto di due porte. L’ultima immetteva nella stanza per il bagno freddo. La vasca in terracotta per il bagno è ancora integra. L’ambiente era pavimentato in òpus spicàtum, con piccoli mattoni di terracotta disposti a spina di pesce. Da questo ambiente si accedeva alla tholos, per la sauna, e da un piccolo corridoio pavimentato con un mosaico a scacchiera, al caldarium, la stanza per il bagno caldo. Del caldarium restano soltanto le pareti, con nicchie portaoggetti, e il piano su cui erano posti, a distanze regolari, i pilastri in mattoni che sorreggevano il pavimento vero e proprio, in mosaico policromo, trovato dagli archeologi in pezzi. Il pavimento a mosaico fu rotto intenzionalmente per recuperare proprio i mattoni di buona qualità che sorreggevano il pavimento, così da creare una intercapedine dove incanalare il calore del punto di fuoco, il prefurnio. Il sistema è detto a ipocàusto. Il prefurnio era collocato in un ambiente di servizio adiacente al caldarium, ma da esso separato e non accessibile. In questo ambiente lavorava il personale di servizio delle terme, che si occupava del fuoco e dell’approvvigionamento di legna, carbone e acqua. Anche la vasca per il bagno caldo, collocata vicinissima al punto di fuoco, fu distrutta per recuperare il metallo che la rivestiva. In una delle nicchie del caldàrium si conserva un mosaico policromo straordinario, con raffigurati due busti di etiopi. Le loro vesti turchesi, chiuse da una spilla in oro, lasciano intendere che non fossero schiavi – spesso adibiti al servizio nelle terme – ma che possano essere personaggi legati alla sfera del culto di Venere.

Il sistema difensivo di Populonia
Populonia è l'unica città etrusca fondata sul mare e la vista che potete godere da qui ci racconta che non solo le isole dell'arcipelago toscano che potete intravedere all'orizzonte fossero domini della città antica, ma che anche il tratto di mare che le separava era territorio della città. Dal mare arrivava la ricchezza. Il minerale di ematite dell'Isola d'Elba arrivava su grandi e veloci navi e giungeva prima al porto e poi ai quartieri industriali della città per essere trasformato in ferro, per le armi e per gli attrezzi legati alle attività agricole e produttive. La città alta era protetta da una poderosa cinta muraria, in opera poligonale di blocchi di macigno, che seguendo l'orografia del promontorio chiudeva un percorso di circa 2 km e mezzo, delimitando i poggi del Castello e del Telegrafo. Le mura alte facevano parte di un articolato sistema di fortificazione, costituito dalle cosiddette mura alte, che proteggevano l'acropoli, cuore della città e sede degli edifici pubblici e sacri, e dalle cosiddette mura basse, che chiudevano la città dal golfo di Baratti a Cala S. Quirico. I due circuiti murari erano collegati dalle cosiddette Mura di raccordo, forse individuate in una struttura conservata a Poggio della Guardiola. Si tratta di un ampio camminamento delimitato lateralmente da muri, sul modello dei più completi e monumentali sistemi di percorsi in galleria a scopo difensivo di IV-III secolo a.C. realizzati a Cuma, Siracusa e Selinunte. La datazione di questo sistema difensivo è ancora incerta. In un primo momento si pensava che le mura alte fossero state costruite tra VI e V secolo a.C., così come attestato in altre fiorenti città etrusche in quel periodo. La realizzazione delle mura sarebbe stata da collegare alla situazione di grande instabilità del Mar Tirreno, dovuta alle incursioni siracusane e puniche. Le mura basse sarebbero invece state realizzate nel IV secolo a.C. a proteggere l'abitato che si era sviluppato tra le mura alte a Populonia e i quartieri industriali e portuali, ubicati presso Baratti. Le recenti ricerche archeologiche legate alla realizzazione del percorso che state attraversando hanno in realtà riscritto questa ipotesi, datando tutto l'impianto difensivo di Populonia tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C., quando Populonia è ormai una città entrata nell'orbita di Roma, che sta conquistando tutta l'Etruria. Gli scavi archeologici condotti fino agli strati di fondazione delle mura infatti hanno restituito frammenti ceramici databili non prima della fine del IV e soprattutto all'inizio III secolo a.C., ciò significa che le mura sono state costruite a partire da quella datazione e non prima. Oltre alla ceramica, anche l'analisi delle murature e della tecnica costruttiva ha confermato la nuova datazione. In particolare, le mura hanno porte di accesso 'a tenaglia', tipiche di IV-III secolo a.C.; il circuito murario in esterno ha un così detto antemurale, una sistemazione ulteriore larga circa 1,70 m costruito per lo spostamento dinamico delle truppe di difesa e soprattutto per evitare l’avvicinamento delle macchine di assedio alle mura (arieti d’assedio), [l’antemurale è visibile subito sulla sinistra dopo la passerella] la tecnica edilizia e finitura di superficie, realizzata per evitare possibili appigli per gli assedianti, rimandano alle coeve mura di Vetulonia, Cortona e Fiesole costruite negli ultimi decenni IV a.C. Le mura avevano uno spessore fino a 3 metri e nel punto maggiormente conservato sono alte circa 5 mt e mezzo.